OSSERVAZIONI AL DOCUMENTO LEGAMBIENTE SU NATURA SELVATICA A RISCHIO IN ITALIA

Natura selvatica a rischio in Italia. Giornata mondiale della fauna selvatica (3 marzo 2022 – World Wildlife Day)

 

A cura di Valter Trocchi Ufficio Studi e Ricerche Faunistiche e Agro Ambientali Federcaccia

 

In occasione della Giornata mondiale della fauna selvatica (WWD – World Wildlife Day) del 3 marzo 2022 Legambiente ha diffuso un documento sulla “Natura selvatica a rischio in Italia”. Inutile dire che il documento, oltre a richiamare problematiche oggettive, propone anche argomenti retorici e descrive situazioni faunistiche non più aggiornate.

Si premette che la giornata del 3 marzo è stata proclamata per la prima volta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2013, a 40 anni dalla firma della Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e fauna selvatiche minacciate di estinzione (nota come Convenzione di Washington o CITES), per celebrare e contribuire ad aumentare la consapevolezza nel mondo sull’importanza degli animali e delle piante selvatiche. Quest’anno il tema indicato dalle Nazioni Unite era il “Recupero di specie chiave per il ripristino dell’ecosistema”, tema scelto per richiamare l’attenzione a livello mondiale sullo stato di conservazione di alcune specie di fauna e flora selvatiche più gravemente minacciate e sulle iniziative necessarie per invertire la tendenza. Indubbiamente le minacce per la biodiversità a livello globale sono ancora molto forti, poiché si stimano in oltre 8.400 le specie di fauna e flora selvatiche in pericolo di estinzione, mentre quasi altre 30.000 sono ritenute in pericolo o vulnerabili (dati della Lista rossa IUCN). Chiaramente le principali minacce provengono direttamente e indirettamente dalle attività umane. Si stima che nel tempo l’impatto antropico abbia trasformato il 75% degli ambienti naturali attraverso la distruzione degli habitat originari, i cambiamenti climatici, la diffusione di specie aliene, l’inquinamento, ecc. Questa riguarda in particolare le aree pianeggianti particolarmente colpite dalle moderne tecniche agricole, al punto che il 64% delle specie di Uccelli associati a questi ambienti è in declino in Europa. Una situazione che dovrebbe prima di tutti indurre ad uno sforzo congiunto nel promuovere iniziative concrete in favore degli ecosistemi danneggiati, attuando il ripristino degli habitat, il recupero e la reintroduzione delle specie, il ripristino dei servizi ecosistemici (come ad esempio l’impollinazione, la fruizione attraverso la caccia, l’escursionismo naturalistico, ecc.). Peraltro, a fianco del perdurare di situazioni problematiche non dobbiamo sottacere i risultati positivi che le iniziative di questi decenni hanno ottenuto. È doveroso anche per dare un senso agli sforzi compiuti. I dati sulle specie di Vertebrati dalla Lista Rossa IUCN mostrano che il 7% delle specie ha migliorato lo stato di conservazione negli ultimi 20 anni circa (prima del 2010), cambiando in positivo la categoria di minaccia a causa del successo delle misure di conservazione messe in atto (Hoffmann et al., 2010). Stime recenti sostengono che le azioni di conservazione abbiano impedito addirittura l’estinzione di 21-32 specie di Uccelli e di 7-16 specie di Mammiferi tra il 1993 e il 2020 (Bolam et al., 2020). Il numero di specie marine valutate dalla Lista Rossa IUCN come minacciate di estinzione globale è diminuito dal 18% nel 2000 all’11% nel 2019, sempre grazie alle attività di conservazione (Duarte et al., 2020). I cacciatori sono parte attiva di queste politiche (a dispetto della retorica ambientalista nostrana) e tra i più interessati al successo delle iniziative in favore degli habitat e delle specie. La caccia stessa è un driver importante di crescita di popolazioni oggetto di prelievo venatorio e di altre specie che beneficiano delle ricadute positive delle attività in favore della selvaggina. Ne sono un esempio gli Ungulati che hanno avuto un forte aumento dopo la seconda guerra mondiale in tutta Europa (Apollonio et al., 2010; Perco F., 2020) nonostante il parallelo aumento del numero di capi prelevati (circa 7 milioni ogni anno, Linnell et  al., 2020) e sono di fatto una concausa essenziale all’origine dell’espansione del Lupo in Italia. All’inizio del 1900 negli Stati Uniti la popolazione del Cervo dalla coda bianca era stimata in meno di 500.000 capi, oggi ci sono circa 28 milioni di capi. Un altro esempio di successo sempre negli Stati Uniti è quello del Tacchino selvatico, dopo che nel 1900 la popolazione totale si aggirava intorno ai 30.000 capi, oggi la popolazione è stimata in oltre 7,5 milioni di capi. L’interesse venatorio per le specie cacciabili è un motore molto importante per la conservazione e il miglioramento degli habitat. In Italia numerose zone umide sono state sottratte alle bonifiche di un tempo poiché vi era uno specifico interesse a conservarle per l’attività venatoria, e in tempi più recenti sono numerosi i casi di rinaturalizzazione di cave dismesse per realizzare piccole zone umide dove si pratica anche l’attività venatoria, così come la realizzazione di vere e proprie zone umide attraverso l’adesione ai programmi dei PSR. Un altro esempio di questo impegno ambientale dei cacciatori è il progetto INTERREG PARTRIDGE, una collaborazione internazionale tra 13 partner europei della regione del Mare del Nord. Attraverso siti dimostrativi in terreni agricoli il progetto PARTRIDGE mira ad aumentare del 30% della biodiversità entro il 2023, prendendo a riferimento specie tipiche dei terreni agricoli come la Starna, la Lepre e numerose specie di uccelli canori. Lo stesso interesse motiva il progetto di recupero e di reintroduzione della Starna italica, attraverso il Progetto LIFE PERDIX (di cui è partner anche la stessa Legambiente), promosso dall’ambiente venatorio e cinofilo, ma di cui, probabilmente per tale ragione, non vi è traccia nel Report di Legambiente del 3 marzo scorso. Eppure, il tema indicato dalle Nazioni Unite per quest’anno era proprio il recupero delle specie in difficoltà. La conservazione della biodiversità della nostra Starna italica è una responsabilità esclusiva dell’Italia e grazie al progetto Life Perdix è stato possibile evitare che questo patrimonio si perdesse definitivamente. Il tema della tutela della biodiversità genetica di alcune specie autoctone o endemiche italiane è al centro dell’interesse venatorio da tempo. Anche grazie ad esso è stato possibile recuperare la Lepre italica (Lepus corsicanus), la Lepre europea autoctona dell’Italia centro-settentrionale (Lepus europeus meridiei) e sono stati redatti degli specifici piani d’azione, di conservazione e di gestione utili al Paese. I cacciatori collaborano con Istituti di ricerca per la raccolta di dati sulla biodiversità in tutte le sue declinazioni e oltre  il 90%  dei  Paesi  europei coinvolge i cacciatori nel  monitoraggio della loro biodiversità (Cretois et al.,  2020). Il Mondo venatorio è attivo nel monitoraggio di specie invasive ed è insostituibile nelle attività controllo basate sul volontariato sociale, anche all’interno dei Parchi e di altre aree protette. Ricordiamo che le specie aliene sono la seconda più importante minaccia per la biodiversità a livello globale e non conosciamo azioni concrete di Legambiente nel controllo diretto di specie aliene. Solo per quanto riguarda la Federcaccia le iniziative ambientali dei cacciatori nel 2020 hanno riguardato opere di risanamento o pulizia di aree naturali, bonifica di fiumi e altre zone umide, prevenzione e lotta al bracconaggio per un totale di almeno 116 azioni e 7.340 ore totali di volontariato, generando un impatto sociale complessivo stimato in almeno 234.880,00 €.

Benché anche il documento di Legambiente evidenzi come per le popolazioni dei Vertebrati italiani “le principali minacce riguardano la perdita o il degrado degli habitat (per circa il 20% delle specie) e l’inquinamento di origine antropica (che incide per il 15% circa)”, tra le azioni si pone ancora una volta in primo piano la richiesta di un aumento dell’estensione delle aree protette. Si sostiene che “alcune specie faunistiche molto carismatiche e di grande importanza per la loro funzione ecologica, ed in particolare i grandi carnivori, sono fortemente minacciate mentre per altre le popolazioni sono oramai ridotte a pochissimi esemplari”. Tra queste si annoverano l’Aquila reale, che in realtà non è assolutamente minacciata, ma è in continuo aumento dagli anni ’90, il Lupo appenninico, che è clamorosamente aumentato, tanto che ormai è anche in piena Pianura Padana ed entra nei paesi a predare persino gli animali domestici, l’Orso bruno marsicano, la cui popolazione è stata protetta sin dall’istituzione del Parco nazionale d’Abruzzo e se ancora continua ad essere in difficoltà dipende, evidentemente, da come è stato gestito all’interno del Parco, il Gatto selvatico, che non è certo in diminuzione, così come lo Stambecco, che sopravvissuto in tutto l’areale grazie alla Riserva reale di caccia con un centinaio di individui sul massiccio del Gran Paradiso alla fine del 1800, oggi la consistenza complessiva si stima in ben 55.000 capi di cui 15.000 sulle Alpi italiane.

Appena superati i 30 anni dal varo della Legge n. 394/91 il bilancio sull’attività delle nostre Aree Protette e in particolare sui Parci nazionali non può dirsi affatto soddisfacente. Per evitare di esprimere un giudizio diretto di Federcaccia su questo argomento, che potrebbe apparire di parte, si riprende quanto più volte sancito, e severamente stigmatizzato, anche recentemente, dalla Corte dei Conti (Determinazione del 22 luglio 2021, n. 84). La Corte, che è incontestabilmente titolata a stilare un giudizio motivato in questa materia, ha infatti sancito di aver constatato una situazione di notevole criticità tra gli Enti parco, ancora in essere a distanza di trent’anni dall’entrata in vigore della legge quadro. La Corte infatti afferma: “la generalità degli Enti parco resta ancora carente dei predetti atti di programmazione, nonostante il legislatore abbia sin dall’origine contemplato una precisa disciplina dei tempi procedurali per la loro approvazione, nonché, per il Piano del parco ed il PPES, anche (art. 12, c. 5 e art. 14, c. 2) meccanismi sostitutivi, da parte del Ministero vigilante, idonei ad assicurarne l’adozione, rimasti però inattuati”. Questa constatazione sembra sancire in modo tecnicamente inoppugnabile il sostanziale fallimento degli Enti parco così come li ha voluti delineare il Legislatore del 1991, peraltro negli aspetti delicati della governance. Un fallimento che si ripercuote soprattutto sulle Comunità locali, per la difficoltà di coniugare gli interessi del Parco con quelli delle Regioni e delle Amministrazioni locali, che sono generalmente molto critiche. Pur essendo ben consapevoli della necessità che la mission principale degli Enti parco debba essere improntata alla tutela dei beni naturali dei territori vincolati, si ritiene assolutamente da rigettare l’idea corrente tra gli ambientalisti dell’ “ecomuseo”. Viceversa sono condivisibili le direttive e le linee guida internazionali che prevedono in modo assolutamente chiaro la necessità che le Aree Protette vedano la partecipazione fattiva delle comunità locali. In particolare le Comunità locali debbono essere coinvolte come parte attiva nella gestione delle risorse e dei servizi ecosistemici generati dal territorio, dagli habitat e dalla fauna selvatica. A livello internazionale le Aree Protette sono designate per obiettivi precisi che includono sempre la conservazione della biodiversità, ma anche l’uso sostenibile delle risorse naturali. Recentemente la stessa UE ha licenziato la Nota Tecnica “Note on criteria and guidance for protected areas designations” collegata alla Strategia per la Biodiversità al 2030, nella quale si forniscono agli Sati Membri chiare indicazioni sul coinvolgimento delle Comunità locali e gli stakeholder:

  • Un’efficace partecipazione degli stakeholder è fondamentale in tutte le fasi della gestione delle Aree Protette, dalla fase di designazione alla gestione e al monitoraggio;
  • È particolarmente importante garantire il rispetto dei diritti delle popolazioni indigene e delle Comunità locali quando vengono designate nuove Aree Protette;
  • È pertanto essenziale che gli Stati membri coinvolgano tutte le parti interessate, compresi i proprietari terrieri, i gestori e gli utenti, le popolazioni indigene, le comunità locali e le ONG nel processo di identificazione, designazione e gestione di nuove aree protette, in modo equo e  partecipativo, in linea con la Convenzione di Aarhus e in conformità con le procedure nazionali;
  • La designazione delle aree protette in terreni privati, ove previsto, dovrebbe avvenire con il pieno coinvolgimento dei proprietari terrieri e adeguati meccanismi di compensazione in conformità con il diritto nazionale;
  • Allo stesso modo, le Comunità locali, comprese le donne e i giovani, dovrebbero essere coinvolte in processi decisionali che influiscono sui loro mezzi di sussistenza e sui loro diritti d’uso.

Persino nelle aree sottoposte a “protezione rigorosa”, posto che la condizione fondamentale è che i processi naturali debbano essere lasciati essenzialmente indisturbati dalle pressioni e dalle minacce umane, si prevede che le misure di conservazione debbano essere coerenti con tale obiettivo. Ammettendo, quindi, attività limitate e ben controllate, ovvero pienamente sostenibili e tali da non interferire con i processi naturali tutelati, oppure attività espressamente finalizzate a preservare gli stessi processi naturali o valutate idonee per migliorarli. Persino per queste aree a “protezione rigorosa” viene indicato un processo di conservazione attiva (Conservation operative) con l’obiettivo di sostenere o di migliorare i processi naturali tutelati attraverso la designazione dell’Area Protetta. Nel documento si riportano come esempi il controllo delle specie aliene e la gestione delle popolazioni di Ungulati selvatici, quando la predazione naturale risulti insufficiente.

Oggi la riforma della Legge n. 394/1991 non è dilazionabile e deve essere necessariamente indirizzata verso un processo di armonizzazione con la strategia europea in materia ambientale. Necessita, soprattutto, un chiaro programma strategico per integrare le Aree Protette nazionali con la Rete ecologica europea Natura 2000. Una carenza molto grave, che segna ulteriormente il grado di discrasia del sistema delle Aree Protette previste dalla L. n. 394/1991 con il quadro europeo. Una discrasia, poiché mentre la sezione 2.1 della Strategia europea al 2030 richiama la necessità di realizzare una rete coesa di Aree Protette, Legambiente e le altre Associazioni ambientaliste volutamente evitano di considerare che l’obiettivo europeo del 30% delle terre e del 30% del mare da porre sotto protezione giuridica entro il 2030, dovrebbe essere raggiunto in primo luogo completando e ristrutturando la rete Natura 2000 esistente e solo subordinatamente con la protezione nell’ambito dei regimi nazionali e sub-nazionali. È quindi chiaro che lo scopo dell’UE è di fare leva sui siti Natura 2000 esistenti, che nel nostro Paese coprono rispettivamente il 19,38% del territorio e il 13,42% delle acque territoriali italiane (fonte MATTM, dato aggiornato a dicembre 2020). L’insieme della rete Natura 2000 e delle Aree Protette nazionali e regionali copre attualmente un’estensione di più di 10.400.000 di ettari, interessando più del 20% della superficie terrestre nazionale e l’11% della superficie marina di giurisdizione italiana (acque territoriali + ZPE), in linea con gli obiettivi definiti in ambito CBD (Convenzione Rio, 1992) e dall’Aichi Target 11. Oltre a questi territori bisogna considerare almeno l’8,3% della superfice agro-silvo-pastorale occupata dagli istituti di tutela previsti dalla Legge n. 157/1992 e ulteriori superfici strettamente protette da altre leggi e normative (stimate in 4.300 Km2).

Ci dovremmo quindi chiedere seriamente per quale motivo l’ambientalismo continua a coltivare la solita retorica. Una delle ragioni è che almeno nell’ambientalismo nostrano manca la cultura della gestione a fini di conservazione della natura. Manca la cosiddetta conservazione operativa, la consapevolezza che per affrontare e risolvere i problemi ambientali non basta denunciarli, ma occorre attivarsi concretamente con personale, fondi e mezzi. Serve attivare e gestire le misure necessarie sul territorio, con tutte le difficoltà pratiche che ciò comporta. Solo così si possono affrontare le innegabili difficoltà connesse prevalentemente con l’impatto delle attività umane, dal consumismo, all’agricoltura moderna, all’inquinamento, alla deforestazione, al consumo di suolo, al “non nel mio giardino”, alle specie aliene, ecc. La transizione ecologica ci pone tutti di fronte ad una sfida culturale in questo senso. Non basterà essere ambientalisti, occorrerà essere in grado di “mettere a terra” le misure ambientali necessarie per raggiungere i giusti obiettivi.